Don Michele Grella

In ricordo

A dieci anni dalla sua scomparsa, i giovani della parrocchia di San Ciro Martire ricordano l’intramontabile Don Michele Grella.


Era per Avellino quello che Papa Francesco è oggi per il mondo intero: un homo novus


Una silenziosa folla di fedeli è accorsa alla Chiesa di San Ciro per la Messa in suffragio di Don Michele Grella, il sacerdote che per cinquant’anni ha animato la parrocchia facendone un riferimento ineludibile, una casa sempre aperta a tutti. Era il 20 febbraio del 2009 quando Don Michele lasciava la sua comunità per salire al Padre. Il ricordo del Parroco di San Ciro, a distanza di un lustro dalla sua morte, continua ad essere custodito nel cuore degli avellinesi e di quanti hanno avuto l’onore di conoscerlo. Attorno alla sua carismatica figura si raccoglievano numerose sfaccettature: qualcuno lo vedeva come un padre spirituale, altri come un riferimento fondamentale, ma per la maggior parte dei suoi fedeli era un amico, un compagno e un confidente. Don Michele era il perfetto esempio di quello che un parroco dovrebbe essere per la sua comunità: un buon pastore che pasce le sue pecore. Per riprendere una parabola del Vangelo di Matteo, Don Michele era il sale della terra e la luce del mondo: la persona giusta per rendere meno “insipida” la vita di quanti correvano da lui per una parola di conforto, il candelabro perfetto per mettere in risalto la luce che emanava, illuminando con il suo semplice modo di essere la vita di un’intera comunità. Ma lui, il prete venuto da Sturno, era questo e molto di più. Don Michele era un uomo semplice, tutt’altro che avaro di sorrisi e di parole. Un appassionato di storie, da quelle intime e personali confidategli dai suoi fedeli a quelle della quotidianità che lo circondava. Un uomo che accoglieva accanto a sé tutti, dall’avvocato al senzatetto, dall’onorevole al disoccupato, offrendo indiscriminatamente la sua “buona novella”. Don Michele Grella era per Avellino quello che Papa Francesco è oggi per il mondo intero: un homo novus, emerso dalla semplicità della consuetudine ed elevatosi fino a diventare straordinario. La sua modernità ante litteram lo portò a realizzare gli ideali di una Chiesa che rispecchiasse in pieno i principi del Concilio Vaticano II, povera, al servizio di tutti, ma soprattutto per l’evangelizzazione. Don Michele credeva saldamente in quei principi e li perseguiva in tutti modi, ma principalmente attraverso la sua libertà, e attraverso un grande regalo fattogli direttamente dal Signore: «Il Signore mi ha fatto il dono di non scandalizzarmi di nulla». Non ho avuto l’onore di crescere nella sua parrocchia, ma quella di Don Michele è stata la prima porta aperta che ho trovato qui in città. Scorse il mio sguardo tra quello dei tanti fedeli accorsi ad una delle sue Messe domenicali, riconoscendo il mio volto nuovo tra i tanti conosciuti. Mi chiamò, con il suo cipiglio a metà tra il serio e lo scherzoso, chiedendomi chi fossi e che ci facessi in città. Poi mi abbracciò, accogliendomi affettuosamente attraverso il suo benvenuto. Avvertii immediatamente il calore umano che trasudava la sua figura, minuta ma forte. Ogni volta che tornavo in città, andare in canonica a salutarlo era una tappa obbligatoria: mi chiamava la sua “nennella siciliana”. Non ho vissuto il periodo intenso ma breve della sua malattia, non ho avuto modo di conoscere pienamente tutte le cose belle che ha fatto, ma Don Michele vive anche nei miei ricordi, mentre cammina per la chiesa di San Ciro con la sua talare nera a forte contrasto con i suoi capelli bianchi, con il suo sorriso smagliante e le sue battute sagaci. Orticalab.it

CORRIERE DELL’IRPINIA – Don Michele e la sua idea di una chiesa povera


20/02/2014 Cinque anni fa si spegneva don Michele Grella, autentica guida della Chiesa irpina. La città di Avellino e la Chiesa cittadina lo ricorderanno nel corso di una santa messa, in programma questo pomeriggio alle 18. Pubblichiamo di seguito il ricordo di Gennaro Bellizzi, che ha condiviso con Grella gli anni in cui San Ciro era il cuore del fervore spirituale e culturale irpino. Quando passa una persona “speciale”, c’ è sempre il desiderio di ricordarla a distanza, tracciandone l’opera e l’impegno, cercando, se è possibile di evitare toni enfatici. E Don Michele Grella, è stato davvero “speciale”. Cinque anni orsono si spegneva dopo una breve e dolorosa malattia, e grande fu l’emozione in tutta la città. Ricordarne l’impegno di sacerdote e parroco, sarebbe forse ripetitivo e magari anche limitativo.. Don Michele fu questo, ma anche altro, e la Parrocchia di San Ciro fu molto più che un semplice, ancorché vivace, luogo di culto. Ma oggi, dopo un lustro dalla sua morte, cosa lascia Don Michele ? Ci ho molto riflettuto in questi giorni, che per me sono stati particolarmente intensi sul piano emotivo personale: perché Don Michele è stato amico profondo di mio padre, il mio riferimento spirituale ed etico, colui che ha guidato me, mia moglie e i miei figli e che io, a mia volta, per la mia professione di medico, ho avuto la gioia e l’onore di accompagnare verso il “Passaggio”. La risposta a domande come questa non è mai semplice se il coinvolgimento dei sentimenti è tale , eppure ho voluto provare a darla. Don Michele ha lasciato a tutto il popolo di San Ciro e di Avellino, la sua “Profezia”: quella di una Chiesa povera per i poveri, di una Chiesa di servizio, di una Chiesa evangelizzatrice e , di conseguenza, di una Chiesa LIBERA. E’ una risposta che mi viene rafforzata , in particolare, da un evento che da un anno sta “travolgendo” in senso benefico la Chiesa Cattolica: l’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio di Pietro. Papa Francesco sta mostrando al mondo e, dunque, su scala vasta, ciò che Don Michele, in una realtà più ristretta quale quella avellinese, aveva intuito da diversi anni e che poi null’altro è che la grande intuizione del Concilio Vaticano II. Don Michele come spesso è accaduto, non ha fatto niente altro che anticipare i tempi; chi non ricorda come si sia sempre speso fin dagli inizi del suo ministero per sostenere gli ultimi, i sofferenti? Lo ha fatto, magari in forme non organizzate, ma certamente in maniera spontanea e gioiosa e soprattutto senza paura. Dai poveri delle casupole di San Antonio Abate degli anni ’50 e ’60, alla processione di indigenti che fino all’ultimo ha bussato alla casa di San Ciro, nessuno ha trovato mai sbarrata la sua porta, in ogni ora del giorno e della notte . Ricordo ancora la risposta disarmante che diede al suo amico di sempre Ciriaco De Mita che lo rimproverava per il fatto che alcuni genitori dei bimbi della Scuola materna “Gioacchino Pedicini” non pagassero l’irrisoria retta: “Cirì, loro mi dicono che non possono pagare e mi basta così: non possono!” E, conseguenza logica di questa visione è stata la sua povertà personale: come non pensare ad accostare gli scarponi neri di Papa Francesco a quelli consunti o ai pantaloni sdruciti che Don Michele indossava negli ultimi giorni della sua vita ? Chiesa povera , ma anche Chiesa di servizio e di evangelizzazione; quella stessa Chiesa che il Santo Padre auspica come necessaria, anche nella sua recentissima esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”: come dimenticare l’opera evangelizzatrice di Don Michele , realizzatasi spesso oltre i limiti di San Ciro, svolta da lui personalmente, o attraverso quei frutti nati dal suo impegno di Maestro di tante generazioni di sacerdoti ( mi viene subito in mente Don Franco Ausania, autentico “figlio spirituale” di Don Michele, da decenni impegnato in missione in Brasile). E’ da tutto questo che poi scaturisce anche la dimensione ultima, quella della libertà, il vero dono del cristiano, che, paradossalmente non tutti apprezzano. Don Michele è stato un uomo e un sacerdote veramente libero: libero dal denaro, libero dal mondo dell’esteriorità, libero dal desiderio di carriera (“Sono un semplice sacerdote”), libero dal Palazzo, libero anche dall’ostilità che pure ha subìto in virtù delle sue scelte “anticonformiste” e proprio per questo “profetiche”, scelte che rispondevano solo alla sua coscienza e, in definitiva, a ciò che lo Spirito di Cristo gli suggeriva. Le pagine del Vangelo proclamate in queste ultime domeniche non hanno potuto non richiamarmi la sua figura: perché più di tutto Don Michele è stato “Segno di contraddizione”, “Sale e Luce “ che agiscono silenziosamente ma in maniera efficace, e soprattutto la sua giustizia è sta ben “superiore a quella degli scribi e dei farisei”, che pure lo hanno circondato e di cui tuttavia egli mai si dolse perché, come amava dire, “Il Signore mi ha fatto il dono di non scandalizzarmi di nulla !”. Gennaro Bellizzi

Il 68 ad Avellino Don Michele Grella: ricordare per capire


Vorrei parlare del significato dell’azione pastorale di don Michele Grella verso i giovani in un momento storico particolare per il nostro paese, qual è stato il 68, vale a dire gli anni della contestazione, nel periodo che va dal 1968 al 1970. C’era una grande effervescenza in quel periodo nel mondo della cultura, della scuola, delle organizzazioni sociali, dei partiti e persino nella Chiesa, reduce da un Concilio che l’aveva riconciliata con il mondo moderno ed aveva aperto la strada ad una ricerca di autenticità, a cui – in quest’epoca storica – molti cercano di porre fine. Erano i tempi in cui un Papa tormentato, come erano tormentati i tempi in cui agiva, Paolo VI, il 26 marzo 1967 lanciò al mondo il suo grido di dolore attraverso l’enciclica Populorum Progressio, che poneva il dito nelle piaghe del mondo contemporaneo, la fame, l’ingiustizia, la violenza, il nazionalismo, il razzismo, la guerra e chiamava all’impegno di tutti gli uomini di buona volontà per la costruzione della pace attraverso la giustizia. “Voi tutti che avete inteso l’appello dei popoli sofferenti, voi tutti che lavorate per rispondervi, voi siete gli apostoli del buono e vero sviluppo, che non è la ricchezza egoista ed amata per sé stessa, ma l’economia al servizio dell’uomo, il pane quotidiano distribuito a tutti, quale sorgente della fraternità e segno della Provvidenza”. Ha scritto Aldo Morrone, un medico che ha dedicato tutta la sua vita alla promozione ed alla tutela della salute degli ultimi (specialmente dei migranti), riferendosi all’effetto suscitato dalla Populorum Progressio “Allora avevo solo 13 anni, ma l’entusiasmo, lo stupore ed, oserei dire, l’incredulità che si percepivano erano contagiose. A scuola se ne discuteva e si creavano dibattiti accesi.” Di questo fermento culturale è stata certamente espressione l’opera di Don Lorenzo Milani, la cui azione educativa, condensata in quei capolavori che sono L’obbedienza non è una virtù e Lettera ad una professoressa è stata a sua volta, lievito e fermento di dibattiti intensi e di emozioni profonde ed oggetto di pubblico scandalo e persino di persecuzioni giudiziarie, in quanto Don Milani fu processato per apologia di reato, per aver difeso l’obiezione di coscienza, e vilipendio di Capo di Stato estero, per aver chiamato Francisco Franco (grande combattente per la cristianità secondo alcuni) con il suo vero nome. Questo fermento culturale e spirituale, e quindi politico, ha toccato, in quei tempi anche la città di Avellino e si è incrociato con l’azione educativa di Padre Michele, che ha suscitato sconcerto e scandalo fra i benpensanti e acrimoniosi attacchi da parte di una stampa che – allora come ora – veniva utilizzata come manganello mediatico per punire chi si discostava dalla narrazione dominante. Ho riletto alcune pagine dei giornali locali e vi ho ritrovato le tracce di attacchi tanto velenosi quanto ingiusti contro padre Michele, in cui lo scandalo nasceva dal fatto che la Parrocchia di San Ciro era diventata luogo di aggregazione dei giovani, che rispondevano agli stimoli culturali e spirituali del 68 ed organizzavano assemblee, dibattiti, incontri, manifestazioni pubbliche, laiche o a sfondo religioso ed, in questo modo, mettevano in crisi le categorie sulle quali – allora come ora – si costruiva una narrazione della realtà, che non accettava di essere messa in discussione (la c.d. “contestazione”). Padre Michele fu accusato di essere diventato improvvisamente un agente dei comunisti (nella specie il PCI ed il PSIUP) che – allora come ora – venivano considerati come i nemici pubblici, antagonisti alla civiltà dei buoni che – allora come ora – nascondeva le proprie oscenità dietro quel vessillo ideologico del nulla, consegnato nel brocardo: Dio, Patria e Famiglia, che, negli ultimi tempi, il governo del bene ha di nuovo impugnato, in un tripudio di bandiere, per la gloria del popolo italiano. Bisogna rileggere alcuni titoli per comprendere il coraggio, la dignità e l’indipendenza morale di padre Michele. ” I comunisti in parrocchia. Il sacerdote avellinese ha tentato di giustificare perché dette ospitalità alla famigerata assemblea organizzata da attivisti di estrema sinistra”. “Organizzata dai giovani del Psiup. Era una riunione politica quella della Chiesa di San Ciro. Sempre più evidenti le responsabilità di don Michele Grella” – Tenta di salvarsi il parroco di San Ciro, ma purtroppo per lui non ci è riuscito. Don Michele Grella sapeva del carattere politico della riunione, ma dette ugualmente l’autorizzazione.” Ma non si può sottacere che grande scandalo fra i benpensanti locali (ma anche sul piano nazionale) aveva suscitato il famoso presepe del Natale 1968, un presepe, che uscendo fuori dall’iconografia settecentesca lasciava intendere che il messaggio evangelico postulava una critica dei mali della società che – allora come ora – erano costituiti dall’ingiustizia, dalla fame, dal razzismo e dalla guerra. I benpensanti dell’epoca si sforzavano di delegittimare padre Michele (e di banalizzare i fermenti che attraversavano il mondo giovanile) utilizzando la categoria politica Schmittiana dell’amico/nemico, per cui chi usciva fuori dal seminato doveva evidentemente essere un agente del nemico, una quinta colonna dei comunisti, in questo caso infiltrata nella Chiesa. Questa interpretazione oltre ad essere volutamente ingiuriosa (perché – allora come ora – essere considerati comunisti era disdicevole) naturalmente non coglieva nel segno, non spiegava. Il 68 non è stato un prodotto dell’azione politica e della cultura dei comunisti. Questa cultura, insieme ad altre culture (non a caso abbiamo parlato di don Milani), ed in misura minore, ha fornito soltanto dei fermenti che si sono incontrati con lo spirito del tempo. Per coloro che sono un po’ più giovani di noi e non hanno i capelli bianchi, bisogna spiegare che una volta nel nostro paese esisteva l’opposizione. Non una cordata di politici che si competono con un’altra cordata per realizzare l’alternanza alla guida del paese, guidate, entrambe le cordate, da un pensiero unico. L’opposizione – una volta – rappresentava una politica animata da una cultura che esprimeva una diversa lettura della realtà rispetto alla narrazione dominante. Una lettura critica, una sorta di coscienza infelice, che realizzava un controcanto rispetto ai cantori ufficiali che lodavano le “magnifiche sorti e progressive”. Quando lo spirito del 68 ha cominciato a soffiare e ad intaccare la narrazione che governi, chiese, partiti e media tessevano congiuntamente, è evidente che c’è stato un incontro, e, parzialmente, una fecondazione reciproca con quella politica che – sotto altri profili ed in modo molto più modesto – contestava l’orizzonte delle cose date. Noi non possiamo capire nulla di don Michele e del significato della sua esperienza umana e del patrimonio morale che ci ha lasciato se inforchiamo le lenti del pregiudizio politico che i media dell’epoca distribuirono a piene mani. Don Michele, come Padre Pio Falcolini, un’altra figura che, non a caso si è incontrata nella sua avventura umana con padre Michele, non era pervaso da una passione politica, né coltivava una particolare simpatia per l’una o l’altra forza politica, a parte l’antifascismo (che però non è un partito ma una categoria). La sua era una passione di verità, non di quella verità banale che nasce dalla conoscenza scientifica, ma di quella verità profonda sulla condizione umana, che è postulato della fratellanza. Per questo don Michele, come padre Pio Falcolini, non era un politico, ma un educatore. E l’esperienza del 68 a San Ciro non va archiviata nello scaffale degli eventi politici (dove non avrebbe più nulla da dirci, trattandosi di una esperienza storicamente esaurita), ma va considerata nella sua reale dimensione, quella di un’esperienza educativa. Come tale ci parla ancora, è ancora attuale, anzi è più attuale che mai. Prima abbiamo parlato del presepe, ma io vorrei parlare di un’altra esperienza concomitante, la contestazione del natale consumistico effettuata da un gruppo di giovani nella vigilia del Natale 68. Ricordo una manifestazione assolutamente inusitata, un seat-in lungo il Corso, all’altezza della Standa in cui alcuni giovani ed un giovane francescano, padre Pio Falcolini, innalzarono alcuni cartelli in cui si contestava la riduzione del Natale ad evento commerciale, il Natale consumistico, appunto, e si richiamavano alcuni versetti del vangelo. Non si trattava di una manifestazione di integralismo religioso, di una contestazione dei costumi corrotti in nome della purezza della fede. No, quella manifestazione, così ingenua, metteva il dito su una piaga del nostro tempo, che nel frattempo è cresciuta e si è allargata a dismisura, la cultura del consumismo. Quella sub-cultura che trasforma il consumo, da mezzo (da strumento per la realizzazione dei bisogni della persona) in fine. Che trasforma il consumo in un idolo, in un mito da perseguire a prezzo della dignità e della libertà morale, destituendo di senso l’avventura umana. Che, in campo politico, da cittadini ci ha trasformato in consumatori di consenso politico, che oggi viene acquistato, in confezioni preconfezionate, al supermarket dei media. Una sub-cultura che oggi è arrivata all’apice. al punto che chi è più ricco diventa un idolo e si trasforma in leader politico osannato dalle folle, proprio per la sua ricchezza. Naturalmente quella manifestazione divenne ed era un fatto politico, come sono fatti politici tutti i momenti in cui avvengono comunicazioni pubbliche su temi di interesse generale. Come fatto politico si trattava, indubbiamente, di un evento bizzarro e privo di conseguenze concrete. In realtà il significato di quell’esperienza, come delle altre esperienze simili vissute in quel contesto, non va ascritto al dominio della politica, ma a quello dell’educazione. E’ stata, insieme ad altre, un’esperienza di “violenza ermeneutica”. Cioè un’azione gnoseologica di rottura dei muri, delle barriere mentali, delle dighe del pregiudizio e delle mode, che imprigionano la nostra anima ed impediscono ai giovani di crescere e di sviluppare, nella libertà, la loro umanità. Libertà (morale) ed umanità – per parafrasare una canzone dei Beatles – sont deux mots qui vont trés bien ensamble. Recuperare la libertà morale per sviluppare l’umanità compressa in ciascuno di noi che, per le sue caratteristiche profonde di universalità, è il ponte che ci lega agli altri nella dimensione della fratellanza. E’ questo il significato di quell’esperienza che ha visto al suo centro nel 68 la parrocchia di San Ciro e l’impegno pastorale di padre Michele, coadiuvato da padre Pio Falcolini. E’ stato un percorso educativo che ha consentito a coloro che hanno avuto la fortuna di parteciparvi, di liberarsi degli idoli mentali attraverso i quali l’educazione al conformismo soffocava la libertà morale, e di avviare una ricerca di senso. Di senso della propria vita individuale e di senso della vita collettiva come partecipi ad una comunità umana, che per molti di noi è continuata per tutta la vita e, dopo 40 anni, continua ancora. Certo i giovani dell’epoca che si incontravano nella parrocchia di San Ciro, sotto l’occhio affettuoso di padre Michele, hanno avuto degli stimoli formidabili per la loro crescita umana, cioè per la loro educazione. Si sono confrontati con i temi della giustizia sociale, della pace, della non violenza, del rigetto del nazionalismo e del razzismo, in altre parole della dimensione politica della fratellanza. Ed hanno maturato degli orientamenti per la loro vita, avvalendosi di fattori educanti di grande pregio. Ha scritto Fred Uhlman, in quel capolavoro che è l’amico ritrovato: “I giovani fra i sedici ed i 18 anni uniscono in sé un’innocenza soffusa di ingenuità, una radiosa purezza di corpo e di spirito ed il bisogno appassionato di una devozione totale e disinteressata. Si tratta di una fase di breve durata che, tuttavia, per la sua stessa intensità ed unicità, costituisce una delle esperienze più preziose della vita.” Io avevo 16 anni nel 1968 ed ho avuto il privilegio di vivere questa fase così preziosa della mia vita, incrociando la mia avventura esistenziale con l’azione educativa di padre Michele e di Pio Falcolini. Quanto sia stato prezioso quel tempo e quanto sia stata privilegiata quell’esperienza, oggi lo possiamo constatare con mano, solo se ci guardiamo intorno e riflettiamo in quale clima sono immersi i giovani di oggi, e quali sono i fattori educativi- anzi diseducativi che il nostro tempo offre loro. Noi viviamo immersi in un tempo in cui si è persa persino la traccia dell’aspirazione alla giustizia ed alla pace e l’universalismo dei diritti umani è stato cancellato in modo forsennato e sostituito dall’egoismo individuale, sociale e di gruppo, inteso come nuovo vangelo del vivere civile. Un tempo percorso dai veleni della discriminazione e del razzismo, che si esprimono in una ricerca di esclusività, in una esacerbata affermazione di identità, in una ostilità per lo straniero, in un ostracismo per il diverso, in una caduta delle garanzie giuridiche, in una difesa corporativa del proprio gruppo, regione o cortile, in un daltonismo sociale che non ha occhi per il colore della pelle degli altri. Un tempo in cui i leaders politici lanciano messaggi che incitano alla discriminazione ed all’odio razziale. Come quel tale che l’anno scorso a Venezia arringava le folle con queste testuali parole: “Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e degli zingari (..) io ne ho distrutti due a Treviso (..) voglio eliminare i bambini che vanno a rubare agli anziani. (..) Questo è il vangelo di Gentilini: tutto a noi, e se avanza qualcosa agli altri.” Un tempo in cui, coloro che esercitano un ruolo di responsabilità istituzionale, orientano l’opinione pubblica al disprezzo dei diritti dei soggetti più deboli, ed i particolar modo dei migranti e guidano la legislazione, introducendo misure discriminatorie, rispetto alle quali impallidirebbero persino le leggi razziali del 1938. Quando un ministro dell’interno, proprio qui ad Avellino, ha il coraggio di dichiarare: “con gli immigrati dobbiamo essere cattivi” e poi si vanta di aver rispedito all’inferno i profughi che attraversano il Mediterraneo alla ricerca della salvezza, infischiandosene delle leggi internazionali e dei richiami dell’ONU. Quando questa azione disumana viene presentata come un modello e riscuote grande consenso popolare, certificato dai risultati elettorali, allora non dobbiamo meravigliarci se a Ponticelli, alcuni facinorosi, interpreti dello spirito dei tempi, danno alle fiamme il campo Rom e se altri sciagurati organizzano spedizioni punitive ed aggrediscono quelli che hanno la pelle d’un altro colore. I roghi dei campi nomadi – ha scritto Livio Pepino – sono le avvisaglie dei pogrom, definiti dai dizionari «sommosse popolari scatenate con l’appoggio o con la tolleranza delle autorità contro le minoranze etniche o religiose». Alla base di ogni pogrom c’è la costruzione, abile e paziente, del «capro espiatorio» che, a sua volta, fa apparire naturale e spontanea la reazione che porta al rifiuto, all’annientamento, alla distruzione fisica dello stesso. Ma non sono solo gli immigrati ed i Rom che vengono costruiti come nemico ed offerti come capro espiatorio alla folla da una politica che ha perso la bussola della giustizia. La rottura dell’eguaglianza, presupposto inscindibile della fraternità, comporta un percorso di divisione e di discriminazione che coinvolge tutti e che mette uomo contro uomo, in uno spregiudicato gioco per il potere. Così adesso si chiedono – a gran voce – le gabbie salariali, per dividere i diritti dei lavoratori per categorie geografiche ed affermare la supremazia di una categoria su un’altra, si contesta l’unità raggiunta attraverso la lingua – l’italiano – e si vogliono di nuovo dividere gli italiani per categorie linguistiche e geografiche, fino al punto da contestare la stessa unità dell’Italia. Ed allora non dobbiamo stupirci se, in questo contesto i valori della famiglia vengono rappresentati, come ha scritto Moni Ovadia da “notori puttanieri pluridivorziati ingozzati e corrotti dalla peggior ipocrisia”. Questo rovesciamento dei valori nel loro contrario ha creato un mondo dove una madre può dire di avere allevato sua figlia nel culto del Vangelo e di Silvio Berlusconi, dove una diciottenne può dire: entrerò nello spettacolo o in Parlamento, deciderà Papi Silvio, dove un padre di famiglia ha tentato di darsi fuoco davanti a Palazzo Grazioli per protestare per la mancata candidatura di sua figlia, aspirante velina o deputata. Ha scritto Gianpasquale Santomassimo, interpretando lo spirito del tempo corrente: “Non fu l’unghia bisulce del Diavolo, ma furono le poppe di Tinì Cansino ad annunciare la venuta dell’Anticristo nel Drive In dell’Italia gaudente e volgare degli anni Ottanta. Comunque si concluda questo ciclo lunghissimo della vita italiana, dovremo alla fine registrare il tentativo più massiccio e riuscito di scristianizzazione della società italiana mai avvenuto nella nostra storia”. Per questo non possiamo non concordare con il richiamo di Moni Ovadia: “Se foste italiani decenti, rifiutereste di vedere il vostro bel paese avvitarsi intorno al priapismo mentale impotente di un omino ridicolo, gasato da un ego ipertrofico. Se foste padri, madri, nonne e nonni che hanno cura per la vita dei loro figli e nipoti, non vendereste il loro futuro in cambio dei trenta denari di promesse virtuali. Se foste esseri umani degni di questo nome, avreste vergogna di tutto questo schifo. Non possiamo limitarci, però, ad avere vergogna. In qualche modo dobbiamo reagire. Noi lo possiamo fare per il dono preziosissimo che ci ha lasciato in eredità Padre Michele, attraverso la sua azione educativa, e che fa di noi dei privilegiati: la capacità di aprire il nostro cuore agli altri, di capire la dimensione politica della fratellanza, di percorrere quella strada verso quel luogo dove, come dice il salmista, “misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”.

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